Che il Re Cremisi non sia un gruppo musicale… beh, questo ormai mi pare appurato, e invero evidente.
Esso è un’entità, una forma musicale a sé stante che prende vita non ogni due anni per presentarci un dischetto fatto alla meno peggio, ma solamente quando il mondo ne ha la reale ed impellente necessità.
Ci delizia con dei tour mondiali e torna ad assopirsi, lasciandoci a sperare di poterlo rivedere e rivivere, in un futuro più o meno lontano, e non si sa sotto che forma, con quali personaggi e se suonando questo o quell’altro genere musicale.
E chi lo segue da tanti anni e ci è entrato dentro, alla sua forma musicale, questo lo sa bene.
Se il Re necessiterà di un anno o di dieci, questo lo sa solo il fato, e noi poveri sudditi lì ad attendere, riascoltandoci i vecchi (capo)lavori e i progetti solisti dei vari componenti che sempre più si accoppiano tra di loro (musicalmente parlando) che neanche nel bel mezzo di “Salò o le 120 giornate di Sodoma”.
Poi la notizia, buttata lì sul sito della DGM, ormai vera e propria Stella Polare per gli appassionati del genere.
Stavolta si rivoluziona sul serio, come da un po’ di dischi non succedeva, e come è obbligatorio ogni decade, per affrontarne il tempo.
C’è Jakko M. Jakszyk, l’unico (un po’ più) sconosciuto alla massa, che porta comunque il suo bel curriculum fatto di parecchi anni di Level 42, 21th Century Schizoid Band e dischi solisti (e a non dire che anche questo era partito come tale, con gli altri a fare da ospiti di extra-lusso, e dico poco).
E porta soprattutto la sua splendida voce calda, potente, penetrante.
In una sola parola: matura.
C’è Mel Collins, sassofonista e flautista su in parecchi dei dischi imprescindibili della prima epoca KCrimsoniana, oltre che di decine di altri gruppi; un personaggio a me sempre molto caro per il gusto di affrontare brani che non si prestano di certo a sax e flauto, ma che chissà come, diventano strumenti di cui non puoi fare a meno.
C’è Gavin Harrison, e la sicurezza di non aver potuto fare scelta migliore. Uno dei batteristi tecnicamente più dotati (e Steven Wilson non è mica un pirla!) oltre che di tecnica, sicuramente di gusto esecutivo, cosa che agli smanettoni dei giorni nostri spesso manca. Un drummer “moderno”, distante anni luce da Mastellotto e la sua passione per la tecnologia e la sua allergia per il 4/4, ma imprescindibile.
C’è Tony Levin, e non spreco ulteriori parole (e anzi, qualcuna ne sprecherei, visto che mi fa una strana sensazione sentirlo suonare quasi sempre il basso e pochissimo lo stick, fatto raro ormai che lo identifico con il suo Chapman e non più col 4 corde).
C’è, ovviamente, il Genio intorno a cui Tutto ruota.
La chitarra di Fripp la riconosci dopo un istante, e stento a credere che abbia lasciato fare qualche nota a Jakko: soundscapes a valanga, chitarre acustiche, assoli così frippiani che più frippiani non si può e il suo curriculum di furberie.
E’ un Leonardo dell’innovazione sperimentale, un Picasso della melodia, un Maradona della ricerca sonora; sono passati 40 anni ma sembra ieri.
Da cotanta grandezza risultava difficile capire cosa aspettarsi, e quello che esce fuori mescolando tutte queste teste pensanti è qualcosa di assolutamente inaspettato: non che bramassi la durezza/freddezza chirurgica di “Power to Believe”, sia chiaro, ma è indubbio che il primo ascolto spiazza e lascia qualcosa di incompleto.
E questo, come ogni smaliziato fruitore di musica sa perfettamente, non può che essere un bene.
Con gli ascolti si comincia a capire che l’esperienza unita agli anni dei singoli musicisti, è tutta racchiusa in queste sei canzoni di lunga durata, senza sforare nell’autocompiacimento o nell’esasperazione dell’improvvisazione.
L’atmosfera la fa da padrona, la melodia sovrasta la ritmica, l’arrangiamento vince sull’impatto.
Voci doppiate, cori ogni treperdue, chitarre come le conosciamo che spesso scompaiono per fare posto ai sounscapes i più atmosferici e il sassofono e il clarinetto a rendere tutto più soft ma non meno intrigante.
Inutile, in un disco omogeneo come questo, un track by track sterile e descrittivo; si dica solo che l’inizio è di quelli che sconcertano, con la title track che è una meraviglia di 7 minuti e passa che lascia senza fiato (con un cantato che non può non dare dipendenza fisica anche al musicofilo più navigato) e che la chiusura di “The Light of Day” è un nonsense musicale ostico anzichenò eppure imprescindibile nei suoi 9 minuti che quasi stentano a trascorrere.
In mezzo c’è tutto ciò che cinque signori di 50 e 60 anni (a parte Harrison che si attesta sui 48) possono offrirci pescando dal loro bagaglio di esperienza finanche quarantennale e dal loro gusto innovativo; il tutto da ascoltare ripetutamente a convincersi che oggi, di sperimentatori che combinano il gusto con la tecnologia, la mamma non ne fa più.
Si potrà chiamare con i loro cognomi, oppure Projekct (ad ampliare quei tanti che già ci furono donati) o come preferite: per me rimane sempre il nuovo disco dei King Crimson.
E di questo, dico grazie.
Track Listing:
1. A Scarcity Of Miracles (7.27)
2. The Price We Pay (4.49)
3. Secrets (7.48)
4. This House (8.37)
5. The Other Man (5.59)
6. The Light Of Day (9.02)
Robert Fripp – Guitars, Soundscapes
Mel Collins – Alto & Soprano Saxophones, Flute
Jakko M Jakszyk – Guitars, Vocals, Gu Zheng, Keyboards
Tony Levin – Bass & Chapman Stick
Gavin Harrison – Drums & Percussion
Claudio Scortichini