Paul McCartney – Bologna 26/11/11

Pensate davvero che Paul McCartney abbia mai fatto un concerto meno che ottimo?
E pensate davvero che non basti la sua figura per rendere uno show vicino alla perfezione?

Da troppo tempo atteso in Italia, l’On The Run tour ha ovviamente bruciato le prevendite delle due date (Bologna e Milano il giorno successivo) in pochi giorni, che si sentiva veramente la mancanza del baronetto in questa valle di lacrime.
La location, ho scoperto, è veramente azzeccata, essendo l’Unipol Arena un palazzetto moderno ma dotato della sua personalità, con una copertura studiata per avere la migliore acustica e anche una buona disposizione del palco e del banco mixer.

Siamo in 6, ovviamente tutti Beatlesiani fradici e ovviamente con il ticket per il fronte palco, che mai e poi mai in vita mia vorrei farmi un concerto da seduto, neanche fossi alla “Madama Butterfly” (che pure ha il suo perché).
La fila sulla strada che porta all’Arena è enorme e così sarà per il parcheggio e ancora di più per entrare, giacché siamo lì un’oretta prima dell’apertura dei cancelli.
Alle 19 circa siamo dentro e, tempo di acclimatarci, veniamo piacevolmente accompagnati da DJ Chris, che dal palco ripropone un mix dei pezzi dei Beatles coverizzati da artisti i più disparati; gli badiamo attenzione fino ad un certo punto, e anzi approfittiamo per guadagnare metri ed essere il più vicino possibile al palco, sgomitando come si confà alla situazione e mandando avanti il nostro panzer ad aprire la strada (una signorina di 1e60 ma che in tanti anni di scapocciamento tra fiezzoni nudi&sudati ha imparato come ci si comporta per essere vicini allo stage).

E ho ancora davanti agli occhi il concerto del maggio 2003 a Roma, davanti al Colosseo.
Paul fece 2 date; la prima ad invito e per beneficienza con biglietti dal costo stratosferico che ovviamente non potei permettermi (lo ascoltai da fuori e ora riascoltando il bootleg ho ancora la pelle d’oca, sebbene fu quasi tutto unplugged), mentre al secondo mi piazzai ad una decina di metri dal palco e furono 2 ore e 40 leggendarie, con uno sfondo impagabile.
Definire “monumentale” la serata è a dir poco riduttivo.

Quando ti accingi ad ascoltare un live di questo fautore della storia della musica in realtà sai già cosa ti aspetta ed ogni volta Lui riesce a farti ricredere e a stupirti con effetti neanche tanto speciali.

Si parte con Magical Mistery Tour ed è subito delirio.
Da qui un andirivieni di pezzi dei Beatles, alternati ad altri degli Wings e della sua carriera solista che ha visto momenti veramente esaltanti ed altri invero abbastanza mediocri, di cui questa sera non c’è traccia e non poteva essere altrimenti.
Paul è in formissima e questo nonostante i suoi 69 anni; pennellatissimo nel suo mogano in testa, ma perfetto nel fisico e, si intuisce, nella mente (non è un mistero il suo stile di vita sano e il suo ultimo matrimonio).
La voce è (quasi) quella di un tempo e sto parlando del tempo degli Wings ovviamente, lo sarà fino alla fine e anzi nei primi 2-3 pezzi sembra quasi doversi scaldare a dovere, facendomi preoccupare non poco di aver perso un’altra delle poche certezze della vita.
A differenza del concerto di Roma 2003, la scenografia è molto essenziale, con 2 enormi megaschermi (con incredibile Full HD) ai lati e un terzo sullo sfondo a proiettare immagini le più suggestive, mentre la band vede, oltre al fedelissimo Paul ‘Wix’ Wickens alle tastiere e Abe Laboriel Jr alla batteria (una vera macchina da guerra dotato anche di un’invidiabile presenza scenica), Brian Ray e Rusty Anderson alle chitarre, che svolgono un lavoro più che dignitoso.
Ovvio che l’attenzione è tutta concentrata su Paul e sul suo eclettismo ormai consolidato da 50 e passa anni di carriera.

La scaletta è da brivido, con i classicissimi degli Wings (Jet, Let Me Roll It, Band on the Run) e piacevolissime sorprese, tra cui non posso omettere I’m Looking Through You, And I Love Her e soprattutto A Day in the Life, vero manifesto del capolavoro Sgt. Pepper… Ed è veramente dura non nominare ogni singola canzone.

Non possono mancare le canzoni scolpite nella roccia che sono conosciute anche da chi di musica ne mastica poca: si chiamano Let It Be, Eleonor Rigby (Revolver è il loro capolavoro assoluto e non temo smentite alcune!), Hey Jude e addirittura Obla Di Obla Da, canticchiata anche dai vetusti milionari in tribuna vip che sembrano capitati lì quasi per caso.

Come fu a Roma, anche oggi vengono ricordati i due compagni/nemici/amici che con Paul hanno scritto la storia della musica e di un’epoca e non esagero a dire che hanno cambiato il mondo: John con Here Today, splendida dedica d’amore per uno dei pochi uomini al suo pari, e George con Something, suonata come di consueto solo con l’ukulele.

E lasciatemi confessare che questo è stato per me lo zenit della serata, grazie anche alle immagini del mio Beatle preferito sul mega schermo.
Piansi a Roma e mi ritrovo a piangere anche qui.

Paul si alterna tra basso (Hofner, ovviamente), chitarra, pianoforte ed il classico Magic Pian che ci riporta ai fasti di Magical Mistery Tour, un disco che amo profondamente sin dalla mia gioventù, ma che in molti non hanno compreso appieno, reputandolo uno dei più prescindibili della discografia.
C’è spazio anche per il classico momento acustico, in cui viene riproposta, tra le altre, Blackbird e qua rischio veramente l’infarto.

Non c’è un momento di calo, non un’esitazione.

La scenografia è micidiale e vede il suo apice con la delicatissima The Long And Winding Road ma soprattutto con la schizoide Live And Let Die, dove l’Unipol Arena viene letteralmente devastata da fuochi artificiali che non avrei mai immaginato fattibili in una location al chiuso (e infatti leggerò il giorno dopo delle difficoltà riscontrate dall’organizzazione nell’ottenere il permesso dai Vigili del Fuoco); un momento indescrivibile che ha visto anche accenni di pogo nelle prime file.

C’è un piccolo break, poi il classico bis: The Word non è tra le più famose dei Beatles, ma comunque molto apprezzata da tutti, specialmente se attaccata con la ruffianissima All You need Is Love, poi altri pezzi da novanta con Day Tripper e Get Back.

Altro piccolo stop e secondo (e ultimo) bis: Yesterday, ovviamente, suonata chitarra e voce con le luci spente e un piccolo spot ad illuminarlo; non serve altro per far emozionare 12.000 persone.
Poi la delirante Helter Skelter, primo abbozzo sessantiano di hard rock come nessuno aveva osato mai.
Si conclude, come sempre, con il trittico Golden Slumbers / Carry That Weight / The End e le parole con cui ci lascia sono immortali, roba da far accapponare la pelle ai poeti più blasonati:

And in the end
The love you take
Is equal to the love
You make.
 

Ce ne andiamo in uno stato di trance, come se avessimo assistito ad un rito; chi ha avuto la sua iniziazione, chi ha partecipato ad un’altra rappresentazione di come deve essere un concerto, ma non solo.
Mi ripeto, quest’uomo ha cambiato la musica, ha cambiato il mondo e il modo di pensare di tante persone; non lo dico io, che conto poco, ma gente che di psicologia se ne intende e ci sono tonnellate di libri a supporto di questa teoria.

Ha 69 anni, ha previsto un tour di un paio di mesi, ha suonato 39 canzoni per più di 160 minuti e alla fine aveva ancora la fantastica voce che mi ha cresciuto sin da quanto mio padre me lo fece ascoltare la prima volta, quando avevo 5 o 6 anni, e anche per questo non finirò mai di amarlo.

Questo è un uomo felice, ma soprattutto ha la grande capacità di far felice tante persone.

Claudio Scortichini

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