Mi viene quasi da ridere pensando che ‘sto qua è un “progetto parallelo” (virgolette d’obbligo).
Insomma, come a dire che un bassista (Leif Edling) di una delle più importanti band Doom della storia (Candlemass) si concede il lusso della masturbazione.
Forma, intendo, un gruppo ove poter dar vita a tutte le sue idee le più perverse, senza pensare all’impatto sulle nostre povere coronarie; nasce così nel 1995 il progetto Abstakt Algebra, con quel primo inossidabile capolavoro ed un sequel mai uscito se non come bonus disc di una ristampa dei Candlemass, e neanche di uno dei migliori dischi.
Muoiono presto, gli AA.
Nascono però i Krux, e il debutto fu un lampo nella notte, un vagito di speranza, un grido che mi è uscito dalla bocca quando l’ho ascoltato.
In my black room
Revolution and Doom
Non vi basta?
E allora ancora Leif Edling e ancora Krux II, sequel oscuro, melmoso, pachidermico.
Rovinato e anzi devastato da una produzione non all’altezza, che non rende giustizia a canzoni superbe.
Fa niente, aspetto.
Esce in sordina, questo “III”, e da parte mia le aspettative sono altissime.
In realtà al primo ascolto l’opener/title track non mi penetra come dovrebbe; una canzone molto semplice, buona ma non eccelsa, con una galoppata che rimanda alla migliore NWOBHM (e chi pensa che sia il nome di un medicinale si vergogni!) e che in effetti poco c’azzecca con il nome che leggo in copertina.
Malata, però, malatissima.
Tastiera in primo piano, con quell’organo/synth maligno sempre pronto ad accompagnare le chitarre, finalmente con un suono degno di questo nome: una botta di vita.
Peccato per la troppa, esagerata semplicità che alla fine non mi lascia abbastanza per essere la porta di ingresso a questo mondo di tristezza e sofferenza, che pure non vedo l’ora di attraversare.
Il primo momento illuminante è con la seguente The Hades Assembly, dove un Mats Leven semplicemente IMMENSO si concede un growl da infarto sul finale, dopo aver cantato su una base Candlemass che più Candlemass non si può.
Space, space e ancora space: siamo su una galassia sconosciuta e siamo felici di esserci.
Splendida Emily Paine (and the Black Maze), da ascoltare ad occhi chiusi muovendo la testa a cavallo di un trip il più psycho.
La storia narrata è delle più tristi, e la sua colonna sonora ci fa precipitare nel più intricato dei labirinti.
So young so sad
Emily Payne, it was the last of your days
All things she had
Emily Payne, you ran into the maze
Ma lo zenit del disco lo raggiunge senza dubbio Small Deadly Curses: appena ne ascolto i primi secondi torno sedicenne, a quando sbavavo (anche) per il metal il più pomposo, e quei cori… oohh… quei cori non mi hanno mai abbandonato!
E quella strofa dal ritmo “spezzato”… e che dire di quel chorus come ne aspettavo da tempo immemore; diretto nella sua semplicità, micidiale nella sua malignità.
Soddisfacente e dico poco.
Da qui si potrebbe solo calare ma questi, signori, sono i Krux, ovvero la summa di alcune tra le più grandi personalità nel genere, e mica uno di quei gruppetti formati l’altro ieri tanto per rimorchiare 2 bamboccine urlanti e mostrare l’ultimo tatuaggio.
Arriva la mazzata, è di una decina di minuti abbondanti e risponde al nome di Prince Azaar and the Invisible Pagoda; intricatissima nella sua struttura in cinque parti e dotata di un bellissimo testo, è forse la vera impennata che mi fa ricordare che l’elemento epico non deve mai mancare in un lavoro che ambisca ad essere completo.
Il metal si fonde perfettamente con le cadenze funeree, e il tocco magniloquente del chorus non stona affatto in tutto questo marasma; siamo in un atmosfera delle più plumbee e Mats Leven ci conduce per mano e ci narra, declamandole, le gesta spaziali alla corte del Principe.
Intorno a noi un che di oriente e un forte, penetrante odore di incenso; il tutto, ovvio, tra il magma creato da Fredrick Akesson e Jorgen Sandstrom, con chitarre che si inseguono, si sfiorano per poi allontanarsi e di nuovo di cercano.
Potrebbe anche bastare così, ma con questi cinque manigoldi non c’è mai da abbassare la guardia.
The Death Farm, una track con una parte centrale molto buona, ma che nel complesso definirei con una parola che odio: un riempitivo.
Ed è il primo della loro carriera e prima o poi doveva arrivare, ne sono consapevole, ma soprattutto il “già sentito” mi da parecchio fastidio.
Sono appena appena triste per questo calo di tensione che ecco la conclusiva A Place of Crows che mi riporta su livelli di entusiasmo di parecchio oltre la dignità.
Un riff fatto apposta per slogare colli, un lento incedere nel mondo dei corvi.
‘CAUSE THE WORLD IS A PLACE OF CROWS
‘CAUSE THE WORLD IS A PALE GREY HORSE
‘CAUSE THE WORLD IS A BLOATED CORPSE
Il testo è nero, nerissimo e lascia poco spazio alla speranza; godo.
Mi è capitato diverse volte, ascoltando il disco, di avere dei deja-vu con canzoni dai primi due lavori; magari un arrangiamento, un coro, un’idea, o quell’abitudine di cantare la stessa linea melodica delle chitarre tanto cara ai Black Sabbath.
Ho impiegato parecchio tempo per assimilarne bene i contenuti, giacché anche a livello lirico siamo su altri pianeti rispetto alla media e di certo non stiamo ascoltando un qualcosa di easy-listening; posso quindi ben dire che l’attesa è stata ampiamente ripagata da un’opera di alto livello, forse non alla pari col debutto e certamente molto lontana dall’omonimo degli Abstrakt Algebra, ma comunque una linfa vitale per chi di Doom (con ampie venature space) si nutre.
Dischi di questo calibro, credetemi, sono una manna dal cielo.
Claudio Scortichini
Tracklist
1 – He Who Sleeps Amongst the Stars
2 – The Hades Assembly
3 – Emily Payne (and the Black Maze)
4 – Small Deadly Curses
5 – Prince Azaar and the Invisible Pagoda
6 – The Death Farm
7 – A Place of Crows
Line Up:
Mats Levén (vocals)
Fredrick Åkesson (guitar)
Jörgen Sandström (guitar)
Leif Edling (bass)
Carl Westholm (keyboards)
Peter Stjärnvind (drums)