Un gruppo che si è formato, è cresciuto e si è autoprodotto un album di inediti è degno di essere ascoltato, no?
Si tratta dei NUUR e del loro primo album “Paradisi artificiali” contenente ben dodici tracce accomunate da un unico scopo: risvegliare gli animi delle persone ormai assopiti dalla meccanicità della società.
L’album inizia con “Eremo”, sicuramente una delle canzoni più orecchiabili (dal punto di vista della maggioranza delle persone abituate alle canzoni commerciali).
Ascoltandola più attentamente si coglie, però, lo spirito del brano: è una sorta di marcia da combattimento pronta a colpire nella mente delle persone, enfatizzata dai suoni decisi fusi alla perfezione con le parole.
Lo stile si rende più alternativo nella successiva “Nemesi”.
La voce inizia ad essere più particolareggiata, avvicinandosi molto allo stile “agnelliano” degli Afterhours.
Dopo una prima parte scandita da tocchi decisi di batteria si arriva ad un’esplosione verso il terzo minuto capace di creare una sensazione di confusione in chi la ascolta.
Soffermiamoci adesso su “Maschere”, canzone che, se ascoltata ad occhi chiusi, suscita emozioni di vario genere: dalla speranza alla tristezza.
Sopratutto colpisce il momento dell’assolo di chitarra: il cervello si spegne e si inizia a vivere solamente di sensazioni; dopotutto quella chitarra sta raccontando esattamente queste ultime.
Già dai primi pezzi si nota la versatilità della band e i vari cambi di genere presenti nell’album, che passa dal rock elettronico al rock psichedelico – parte centrale di questo lavoro – in canzoni come “Spleen”, ultima traccia dell’album, completamente strumentale ma capace di trasmettere un’ideale anche solo grazie al suono, fino ad arrivare a canzoni più commerciali (che potrebbero facilmente passare in radio insomma), come “Bianco e nero”, in cui il primo riff di chitarra ricorda molto il ben noto stile degli Oasis, anche se, poco dopo, i Nuur si confermano gli alternativi di sempre inserendo molto noise.
Pian piano ci avviciniamo alla parte dell’album che preferisco.
Partendo da “Paradisi artificiali” – canzone che dà il nome all’album stesso –, dal testo “anti-consumistico”, tema che riecheggia in tutto il disco, passando per “Climax” che musicalmente è proprio ciò che la figura retorica scelta come titolo definisce: un crescendo che giunge al suo apice nell’atteso assolo di chitarra, per sfociare in “Riflesso”, la quale mi ha colpito particolarmente per il testo (come si fa a non rimanere affascinati da “Noi siamo la speranza di un sogno senza fine racchiuso in gusci umani”?)
Insomma questo album è un vero e proprio viaggio mentale, una sorta di sveglia musicale che rimbomba nel cervello e inizia a farti ragionare.
Eli Bertolucci