Varese, 2014: nascono i Belize. Quello che propongono al pubblico è un sound ricercato ed essenziale, un mix tra elettronica, rap, trip hop.
“Replica” è il loro nuovo EP: racconta scelte, cambiamenti di chi si sta affacciando all’età adulta e sta imparando a conoscersi e ad amarsi, accettando anche le parti oscure di sè. Le canzoni che lo compongono sono racconti di attimi. Di questo e di molto altro ci hanno parlato in questa intervista.
Partiamo dal principio. Come vi siete conosciuti e com’è nata la vostra band?
Cercando in rete troverai svariate versioni di questa storia… E più o meno tutte concordano nell’individuare in un pomeriggio di noia del 2013, tra l’uscita di GTA V (17 settembre) e la fine di Breaking Bad (29 settembre), l’istante 0 di ≈ Belize ≈. Nati e cresciuti nella stessa città con la stessa sfrenata passione per la musica e l’attitude che ne consegue, non era improbabile che ci incontrassimo. Prima o poi. L’occasione si presentò quel pomeriggio. Riccardo e Mattia, reduci dai precedenti progetti musicali, ebbero l’idea di riportare in città la voglia di hip hop nella sua accezione più malinconica, dilatata e “trippy”. Mancavano giusto un batterista con la passione per Jojo Mayer e un’inconsapevole bassista con qualche skill in produzione sonora per completare la squadra.
Perché Belize?
Per quanto riguarda il nome ti rimando al seguente link:
http://breakingbad.wikia.com/wiki/Belize
Mettici un po’ di esotismo, di evasione per una generazione (la nostra) che ha sempre lo sguardo altrove e le caviglie ben salde sul confine della propria città, in un perenne contrasto tra sogno e disincanto.
Senza dimenticare che suona bene: prova a ripeterlo, “Be li ze”. Non suona un po’ come “Be lie ve”?
Arriviamo al vostro EP, “Replica”. La prima traccia, “Pianosequenza”, mi ha colpito molto fin dal primo ascolto. E’ un brano malinconico, che racconta i rapporti umani, che avete definito ”lineari e complessi come un pianosequenza cinematografco, dove non c’è spazio per errori, seconde occasioni o distrazioni”. Quindi, stando a quanto dite, non esistono sbagli perdonabili? Non c’è possibilità di rimediare ai propri errori?
Come da nostra discografia, Pianosequenza è più il racconto di un istante che una ponderata e radicata presa di posizione. Penso che la consapevolezza di sè passi anche dal riconoscimento delle cose che “non vogliamo”. Dal credito dato ad una sensazione di pancia alla razionale accettazione di un fallimento e se esistono errori perdonabili, di certo non esistono istanti uguali a loro stessi e magie ricostruibili.
“Superman” racconta la necessità di accettarsi ed accettare le proprie paure e i propri limiti (“Paranoia a colazione” e poi “In fondo vuoi ridere e stare bene anche solo con te”). Quali sono le vostre?
Dopo il nostro recentissimo incontro con quelli che furono e che ancora spavaldamente sono gli Amari (se non li conoscete, cercateli #NOW) mi sono tornate in mente tutte quelle cose che abbiamo rubato loro. Volontariamente o involontariamente, in Super- man trovate tanti aspetti che ci accomunano. Entrambi ci ricamiamo attorno un mondo da “wanna be cool – or maybe not” fatto di eterna ricerca e plagio dei nostri eroi senza mai davvero portare il discorso al di fuori dalle nostre camerette. Senza vergogna inneggiamo al disagio dei bravi ragazzi, alla fatica di dover mantenere la maschera da duri pur riconoscendoci fieramente nerd e lasciando alla sola cura della produzione e degli arrangiamenti la sincera responsabilità di renderci “Super”.
“(Gillette)” sembra parlare di una storia d’amore, ma poi ci sono riflessioni molto più profonde, sotto forma di input: la capacità delle parole di ferire, la differenza tra apparenza e sostanza, la bellezza del comunicare senza aver bisogno di parlare, la difficoltà di sentire quello che non si vuole ascoltare. Ci ho visto bene? Cosa volete comunicare con questo brano?
Tornando al discorso di prima, anche Gillette è il racconto di un attimo. Stessi interlocutori, stessa stagione, stessa condizione emotiva al limite dello strappo. Poco importa se temporalmente prima o dopo Pianosequenza, ciò che conta è ribadire i confini di sè stessi, dei propri bisogni e delle proprie azioni.
Il vostro sound è ricercato e spazia dall’elettronica al trip hop. Quali sono gli artisti a cui vi ispirate?
Da bravi figli del nostro tempo siamo piuttosto onnivori in quanto a gusti musicali ma per Belize si è fin da subito deciso di seguire un filone piuttosto preciso. Scherzosamente si parlava di fare i Gorillaz in italiano. Una batteria sincopata rubata a qualche tutorial, un amico rapper per tirar giù due rime e tanta malinconia ad impregnare il tutto. Lo chiamano trip-hop e wikipedia mi viene in soccorso nella definizione (che leggo per la prima volta ora): “Nato a Bristol (Regno Unito), città natale dei Massive Attack, e per questo chiamato anche Bristol sound, il trip hop affonda le sue radici nella musica elettronica, nel dub, nella scena hip hop (rallentato ed incupito) e house inglese, e in certi elementi dalla musica psichedelica, aggiungendovi alle volte anche spunti jazz, funk e soul. I testi possono essere rappati sottovoce o cantati con toni caldi su basi oscure od oniriche, che appaiono e si disciolgono nel nulla. Le atmosfere sono quelle inquietanti delle grandi e decadenti città di fine anni novanta. Per alcuni gruppi come i Portishead la ricerca sonora è basata sul recupero di sonorità lo-fi e basi retro, spesso riciclando campioni di brani jazz e di film d’altri tempi, per altri vi è anche l’uso di strumenti quali archi, strumenti a fato e similari.” Si bhè, forse siamo davvero un po’ trip hop.
Le vostre sembrano sonorità quasi internazionali, permettetemelo. Avete avuto esperienze musicali all’estero? (Se no) Vi piacerebbe averne?
Teniamo molto d’occhio il panorama musicale nostrano come affiatati tifosi di lunga data e, dopo tanti anni di simil nulla a tutti i livelli, abbiamo l’impressione di essere ad un punto di svolta. Finalmente la pignoleria identitaria è tornata di moda e piano piano tante piccole realtà fatte di artigianato (e autismo) emergono con grande giubilo del pubblico, probabilmente stufo di dover attendere il C2C per poter ascoltare cose interessanti. Non siamo mai stati un pubblico musicalmente sprovvisto, siamo più un pubblico di pavidi e chi organizza eventi, tra mille peripezie, lo sa. L’azzardo non è contemplato, il rischio di una scelta artistica (oltre a tutti quelli che già vanno previsti) impensabile. Porto un esempio fresco di giornata: sono stato di recente al concerto milanese dell’unico vero re degli anni ’10, King Krule. Per tutta la durata del concerto non c’è stato un momento in cui l’unica voce vibrante in sala fosse la sua. Se non abbiamo perso gusto nel riempire il locale per un inglesotto poco più che ventenne, di certo l’abbiamo perso nel trasformare tutto in evento mondano e nulla più. Io personalmente posso vantare di non aver mai suonato in una band che non cantasse in italiano. Senza tradire posizioni nazionaliste, anzi, ho sempre pensato che parlare alle persone che ti circondano sia indispensabile per avere davvero la loro attenzione. Poi chiaramente, i risultati non sono sempre eccelsi ma, se sei un performer, l’importante è pur sempre provarci, no? Con una scena musicale capillarmente debole, come possiamo competere in inventiva con certe realtà anglosassoni o francofone che invece si dimostrano sempre ben disposte ad accogliere i nostri proverbiali “cervelli in fuga”? Questa è forse l’unica cosa che invidierei ad una esperienza musicale all’estero, ma le cose cambiano in fretta se c’è voglia.
Avete partecipato alle audizioni di X Factor 11. Cosa pensate voi dei talent? Secondo
voi in un talent come questo è possibile proporre la propria musica senza lasciarsi troppo trasportare dai meccanismi del programma televisivo? E’ possibile cioè parteciparvi senza cambiare troppo? Riprovereste ad entrare ad X Factor (oppure in un altro talent)?
Tenendo conto che X Factor Italia è l’unico della serie ad avere una categoria band strumentali che preveda l’interpretazione strumentale dal vivo, non si può negare che in realtà i contendenti godano di molta più libertà di quanto si pensi. Per quanto ci riguarda, nonostante lo scetticismo iniziale, una volta nel contesto ci siamo scoperti molto affiatati e divertiti dalla situazione sia tra noi che con gli addetti ai lavori, sempre attenti affinché lo “show” fosse gradevole e appassionante per noi come per le persone in
ascolto. Il lato umano delle cose, per fortuna, batte sempre qualsiasi altro preconcetto di forma e ci teniamo per noi una serie di spassosissimi ricordi di quei giorni che difficilmente dimenticheremo. Detto questo, più che il talent in sé o avuto l’impressione che il vero problema fosse l’atteggiamento con cui ci si approcciava allo stesso: l’idea che serva l’approvazione di un sistema di broadcasting soggetto a sceneggiatura per sentirsi degli “artisti” è di per sé agghiaggiante. Se invece l’intenzione massima è quella di sfondare nel glitterato mondo della musica, per quanto mi riguarda siamo già concettualmente molto distanti l’un dall’altro. Nel nostro caso l’occasione si è presentata un po’ per caso, un po’ per gioco. Ci siamo presentati così come eravamo (letteralmente) e le cose sono andate molto bene sia a livello di riscontro all’interno del programma che all’esterno e la cosa ci rallegra molto. Quindi ben venga sfruttare qualsiasi canale per farsi sentire, l’importante piuttosto dovrebbe essere capire da dove arriva l’urgenza comunicativa che si ha e sopratutto chi vorrebbe raggiungere.
Quali sono i vostri progetti futuri?
I prossimi piani saranno quelli di continuare a scrivere definendo sempre più la tappezzeria della stanza che abbiamo iniziato a scoprire con Replica. Il riscontro è buono e l’ispirazione non manca per cui, nonostante gli impegni personali di tutti, ci tocca rimboccarci le maniche. Tenete d’occhio le nostre pagine social, abbiamo appena iniziato un tour per tutta Italia e vi assicuro che i nostri riarrangiamenti live meritano una chance.
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Anna Gaia Cavallo