E’ uscito l’8 giugno Sorbonne, il singolo d’esordio di Acate. Il pezzo racconta una storia d’amore vincolata al mondo virtuale, nel quale uno dei due partner è totalmente immerso, non realizzando quale sia il vero rapporto sentimentale. Un brano particolare dal tema molto attuale, per approfondirlo meglio abbiamo intervistato l’artista.
Acate intervista
Ciao Acate, è un piacere intervistarti. Come nasce il tuo brano “Sorbonne”
“sorbonne” nasce durante il lockdown. Un periodo in cui lavoravo in ospedale e suonavo tanto a casa. Un periodo di reclusione e di distanza dalla fisicità, dalla realtà.
In origine, la bozza durava un minuto e una decina di secondi circa, forse qualcosa di più. Pensai ad un jingle di quattro accordi e una struttura dinamica in cui poter dar spazio all’eccentricità, alla stravaganza, ma anche ad un testo figurativo, di immagini, che racconta la mancanza del rapporto umano, la distanza e il vivere dentro un non-luogo, una non-realtà, il mondo dei social network asettico, calcolato.
L’esempio è proprio un rapporto sentimentale che si vive sempre più per abitudine. Non c’è corrispondenza di sentimento, o forse non si avverte. Esiste solo l’immagine, quello che vuoi far vedere agli altri. “Che sapore ha / questo freddo / forse non lo so”.
Credo che questo sia il verso che riassume quanto privarsi delle istanze emotive ci faccia immergere in una situazione distopica e razionale al punto da non capirne i meccanismi.
Viviamo in un vuoto immenso e pieno di riverbero, come un aula della Sorbona di Parigi.
Il titolo si collega a una parte della mia vita importante, l’università e il valore che ho sempre dato all’istruzione, alla cultura che introduce ad una sensibilità e una forma mentis aperte al mondo.
Cosa ti ha spinto a diventare un musicista?
La vita mi ha portato a fare musica. Ho sempre vissuto la mia crescita, le mie difficoltà e miei traguardi sul timing e armonie creative, che non seguono canoni o logiche serrati, ma i lineamenti della mia persona, del mio cuore. Quando ero piccolo, sapevo già che la mia strada fosse quella musicale. In quel periodo, quando suonavo ai saggi oppure per conto mio a casa, volevo fare di più, ma a modo mio. Il mio maestro diceva che ero troppo esuberante.
Le mani viaggiavano e ascoltavano il mio orecchio, il mio estro. E probabilmente degli spartiti, nonostante abbia imparato a leggerli e a conoscerli, e qualcuno mi piaceva particolarmente, non me ne fregava una minchia. Io sognavo di fare le mie canzoni con cui raccontare le mie storie, in cui ci potevano stare dentro tutti. immedesimarsi per me era una parola chiave.
Fare il musicista è un mestiere difficile, perché devi essere originale, ma comprendere che gli altri devono capirti, sia sonoricamente sia testualmente. La sfida. Anche la sfida mi ha portato a buttarmi in questo mare salato, ma dolce allo stesso tempo.
Quali sono le tue aspirazioni?
Vorrei tanto girare la mia terra, L’Italia, e il mondo con la musica. Il mio sogno è fare il musicista di tutti, non solo per me stesso. Conoscere persone, condividere storie, ridere e piangere insieme. Bello, no? Ho sempre pensato ad una rivoluzione, ma non di quelle drastiche o chicchessia, ma semplici, del modo di essere, del modo di fare. Io studio storia all’Università, perché un altro mio obiettivo è quello di laurearmi e poter dare il mio contributo nelle scuole. La storia cambia con le rivoluzioni. Io vorrei dare un altro punto di vista della musica. Sarebbe fantastico parlare di musica ai ragazzi, lavorandoci dentro e diventare qualcosa di impresso nei libri di storia. Chissà. Intanto, la faccio e sorrido, facendola.
Tre album che ti hanno cambiato la vita.
“Black on Both Sides” di Mos Def. Lì ho capito che la musica è oltre, che l’Hip Hop è rap, ma anche canto. Poi sono successe altre cose. Ma, da questo album, ne sono inziare altre.
“Portrait In Jazz” di Bill Evans. Con questo album ho capito quanto il pianoforte sia fottutamente sexy. Quanto le ritmiche jazz davano vita alla mia personalità. Lì ho approfondito lo studio del blues e del jazz.
Terzo:”Circles” di Mac Miller. Poco da dire, se non una cosa sola: sperimentazione.
A dire il vero, gli album importanti della mia vita sono tanti e tre è un numero perfetto, ma, in questo caso, approssimativo. Però, questi tre, in epoche diverse, mi hanno dato tanto.
Ultima domanda: se dovessi descriverti con il nome di un drink quale sarebbe e perché?
Una domanda che mi fa venire voglia di prendere una stonfa…
In ogni caso, più che un drink, pensavo ad un amaro, come il Montenegro. Classico, elegante, fresco, ma che, se ne bevi dai sei in poi, o almeno per me, entri in un vortice di frenesia e dispercezione del reale quasi fantastiche o fantascientifiche. Mi sento così. Ubriaco senza esserlo.