E’ uscito “Garçon Raté”, il disco di debuto di Ali + The Stolen Boy. Tra le sue influenze più importanti troviamo Stromaé, St. Vincent, Arca, Pomme, così come le cantanti popolari Rosa Balistreri e Violeta Parra e la voce di Nina Simone.
Bambinə ossessionatə dai video di Britney e delle Destiny’s Child, Alix scoprirà molto più tardi che i brani degli anni 2000 con i quali si prende bene sono tutti prodotti da Timbaland.
Lo abbiamo incontrato, ed ecco cosa ci ha raccontato.
Ali + The Stolen Boy intervista
Quali sono tre dischi che a tuo parere sono stati fondamentali per la tua formazione musicale? E perché?
Sicuramente Actor (2009) di St. Vincent. Mi ricordo che ero adolescente, e avevo scoperto St. Vincent su YouTube con uno dei suoi primi pezzi, Paris is Burning. Fu una folgorazione, a livello compositivo, musicale, il mood e la sperimentazione… In Europa, a parte in pochissimi posti a Londra e a Parigi, non si trovavano i suoi dischi. Ho trovato una copia di Actor a Parigi alla FNAC di Montparnasse, era l’unica copia che c’era in tutta la città. E l’album che ho ascoltato di più in quegli anni, e poi tutto quello che St. Vincent ha fatto uscire successivamente è stato una scuola di formazione per me.
Un secondo album importante è stato Racine Carrée (2013) di Stromae, perché non c’é un pezzo in quell’album che non mi piaccia, lo trovo perfetto, straordinario per come riesce a costruire l’universo e l’identità di Stromae attraverso i pezzi. Sulla scrittura dei testi poi mi ha formato tantissimo, scrive benissimo; è riuscito a fare un progetto pop internazionale in francese, con dei testi pazzeschi legati a un contesto culturale preciso ma un sound che può toccare il pubblico del mondo intero… Racine Carrée mette insieme EDM, Dance, Morna, Chanson Française, tradizioni musicali molto diverse e poi, non so, Stromae è un interprete incredibile. Forse Racine Carré è stata la mia scuola di interpretazione.
Terzo album, Ensen (2017) di Emel Mathlouthi, artista e musicista tunisina, che vive tra la Francia e gli Stati Uniti. Emel è incredibile, ha una voce straordinaria, ha accompagnato vere e proprie rivoluzioni con la sua musica, i suoi testi hanno smosso le coscienze di persone che stavano lottando per la libertà; è un’icona per me, un’artista che si è schierata politicamente, e in Ensen c’è tutta la fusione di questi elementi. È un album in cui musica elettronica, pattern ritmici, percussioni e tradizioni musicali tunisine si intrecciano. Adoro il suo modo di armonizzare vocalmente nei suoi pezzi, le sue produzioni mi danno un sacco di spunti, e ha un universo a volte dark nel quale mi ci riconosco abbastanza. Ensen l’ho ascoltato quando già avevo le idee più chiare su chi fossi musicalmente, e mi ha ispirato molto.
Quali sono gli elementi più identificativi del tuo progetto musicale? Cosa non può mai mancare e fa di un brano qualcosa di tuo?
Un po’ di caos che prende forma [ride]. La mia musica non è molto sobria o lineare. Da un punto di vista tecnico questo si traduce sicuramente in pattern ritmici e un lavoro percussivo che deve rispecchiare l’emozione del pezzo che sto scrivendo. A livello compositivo, il mio progetto parte dal ritmo e dalla linea melodica, che scrivo e elaboro al piano, insieme a parti che poi suoneremo con altri strumenti, a volte pitchati a volte no. In Garçon Raté ci sono flauto, violini, arpa, chitarra elettrica, batteria e un sacco di roba elettronica, beat ecc.
Poi adoro gli stacchi, è difficile che riesca a fare un pezzo che non abbia degli stacchi netti, dei momenti in cui il brano si sfascia. Le cose troppo pulite non sono per me. Mi piace che un pezzo si interrompa brutalmente, è come se componessi da frammenti e cercassi una forma finale che sia ibrida. Disparu penso sia il pezzo nell’album che si avvicina di più a quello che sto dicendo.
Altri elementi che non possono mancare sono dei testi scritti e riscritti finché non mi convince ogni singola parola, un lavoro vocale in cui armonizzazioni, alternanza tra parti parlate e parti cantante, spoken e parti melodiche si intreccino.
Insomma devo mescolare roba, sempre, da elementi elettronici, al Drum & Bass, alla fusione di generi, musica folk, hip hop, a volte con elementi quasi sinfonici. Questo caos è presente in tutto l’album. E poi se senti i miei pezzi ti accorgi che c’è l’arpa ovunque. E la prima cosa che ho detto a Giuliano Pascoe, il mio produttore, quando abbiamo cominciato a lavorare insieme: ci sarà l’arpa ovunque!
Come si sceglie un produttore musicale e come si capisce che è la scelta giusta? Com’è stato per te?
L’ho cercato per anni, si va anche per tentativi credo; per me è stata semplicemente una questione di incontri. E per me l’incontro con Giuliano Pascoe non poteva avvenire in un modo migliore: me l’ha presentato Jermay Michael Gabriel qui a Milano. Io e Jermay ci siamo conosciuti per una vicinanza di visione, credo, rispetto all’attività artistica che facevamo. È un artista visivo straordinario. E ho scoperto che fa anche musica. Gli ho detto che avevo fretta di trovare un produttore, che non ne potevo più di stare fermə dopo due anni di pandemia.
Mi ha detto che doveva assolutamente farmi conoscere Giuliano, un produttore bravissimo e suo amico e che ci saremmo trovatə. Eravamo al bar insieme e Jermay l’ha chiamato letteralmente 18 volte, nonostante Giuliano non potesse liberarsi quel giorno; ha insistito talmente tanto finché Giuliano ci ha raggiunti. Da lì gli ho spiegato il mio progetto, i miei riferimenti e mi ha detto subito sì, vediamoci in studio. Da quando abbiamo cominciato a lavorare su Uranus, il nostro ascolto, il nostro modo di conoscerci si è precisato.
Ci siamo divertitə un sacco. La chiave forte della nostra collaborazione credo sia l’ascolto. Con Giuliano parliamo poco, ci mettiamo in studio e lavoriamo molto. Si parla a cose finite. Per questo forse è stato tutto molto veloce. Giuliano ha una capacità incredibile di ascolto rispetto al materiale che gli porto e alla mia identità artistica; e una cultura musicale incredibile.
Ci piacciono le stesse cose musicalmente, abbiamo pochi (ma necessari) punti di disaccordo, ma non so quanto questo sia determinante per una buona collaborazione. E abbiamo forse un metodo di lavoro molto compatibile e una visione umana e artistica simile. Giuliano ha portato uno sguardo e un approccio molto personale al modo di produrre l’album, e allo stesso tempo è riuscito a non forzare nulla nella mia musica: ascoltare l’album oggi e sentire che mi ci riconosco al 3000%, che è esattamente la musica che ho scritto, e riconoscere il suo modo di produrre, la sua sensibilità, la sua scrittura e il suo gusto, è quasi magico.
Cosa ti hanno lasciato tutte le tue esperienze all’estero?
Faccio fatica a capire quale sia l’estero, per me. Milano ha una dimensione da “estero”, perché ci ho vissuto troppo poco e molto di meno rispetto a Parigi. L’Italia è un paese che ho conosciuto in modo molto frammentario, per una parte limitata della mia vita. Ho passato molto tempo in Francia, ci sono cresciuta, ho vissuto anche in Inghilterra e Portogallo per un breve periodo.
Il risultato è che faccio fatica a identificare la mia musica con una sola cultura e un solo paese. Pur scrivendo in lingue legate a dei paesi, il francese e l’italiano, è comunque una scrittura estremamente ibrida. L’ibridazione per me è centrale. E questa ibridazione mi porta a sperimentare sempre e a sapere che ci sono sempre modi diversi in cui potrei scrivere o fare musica, per cui studio, imparo, cerco sempre di sorprendermi.
Tendenzialmente mi annoio molto facilmente, e mi innamoro dei posti nei quali vivo, se non ho slancio d’amore, non mi ci trasferisco, nemmeno per pochi mesi. Ho capito e ascoltato la musica diversamente in base al posto nel quale stavo. A Lisbona, per esempio, la musica non è solo legata all’industria musicale, è nelle strade, è ovunque, di giorno e di notte, è presente in tutta la città.
Dalle cantanti di fado sotto casa mia in Alfama, che ogni sera alle 19 cominciavano a scaldarsi la voce per i concerti, ai musicisti di samba sul Tejo, il funana, il koduro e la morna nelle strade e nei quartieri di Lisbona, che sono vere e proprie espressioni di culture, storie e comunità. Sono contaminazioni musicali incredibili. A Lisbona trovi musicisti nelle strade alle 3 di mattina, a suonare e sperimentare, a cercare melodie e accordi. È una città costruita sulla musica, di giorno e di notte.
Ultima domanda: se fossi un drink quale saresti, e perché?
Un Margarita, direi… Super alcolico, forte – limone, lime, fresco, sono natə a fine maggio. I’m definitely a Margarita babe!
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