Fuori dal 29 settembre il primo singolo di Francesco Nava dal titolo “Acqua”. Un nuovo capitolo musicale viscerale, sentito e stratificato di influenze.
Noi siamo partiti come sempre dai suoi tre dischi preferiti, ed ecco com’è andata.
Francesco Nava
Quali sono tre dischi che a tuo parere sono stati fondamentali per il tuo progetto musicale? E per quale motivo?
Un primo disco che mi viene in mente è “For Emma, Forever Ago” di Bon Iver. La prima volta che lo ascoltai fu come prendere tutto il percorso di scrittura fatto fino ad allora e scomporlo fino a dissolvere le poche certezze che avevo. È tutto bellissimo, dal falsetto monumentale ai silenzi che fluttuano come culle, i suoni rovinati e la densità di aria.
Come secondo disco direi “OK Computer” dei Radiohead. Prendi il rock e sparalo nella stratosfera. Strumenti acustici ed elettronici fluttuano in una sola direzione e si ha la sensazione di ascoltare un pezzo di storia. Ascolto i Radiohead e non riesco nemmeno a pensare a cosa posso imparare dai loro pezzi. Posso solo contemplare e ringraziare qualche dio per la loro esistenza, oppure ringraziare loro perché mi fanno capire che qualche dio dev’esserci per forza.
Terzo direi… Carrie & Lowell, Sufjan Stevens! Dio solo sa quanto lo amo. Mi sembra un miracolo che il dolore diventi una carezza, che tutto il macigno che Sufjan porta in corpo sembri così leggero, fluttuante, quasi di un altro pianeta dove la morte non muore.
Chi è Francesco Nava quando non ha a che fare con la musica? Ci racconti una tua giornata tipo?
Un mio grosso problema è non avere una giornata tipo. Proprio in questi giorni sto provando a trovare un mio ritmo utile a non impazzire! La mia certezza è che appena sveglio cammino a lungo nei boschi con il mio cane. Cerco poi di avere una routine di studio di canto e chitarra, di mangiare a orari dignitosi, preferibilmente all’aperto, di rispondere non troppo in ritardo alle mail per lavori vari di sopravvivenza, di ascoltare tanta musica e di scriverne un po’. La sera mi ritrovo spesso a Milano (vivo vicino ad un bosco dalle parti di Como), dove ho quasi tutti i miei amici e dove partecipo a più concerti possibili. Ah e tutte queste cose avvengono se mi trovo dove mi trovo ora. Altrimenti potrei parlare ore di altre improbabili routine da viaggio, ma il discorso diventerebbe piuttosto tortuoso
Ti capita mai di riascoltare qualche brano vecchio che hai scritto, e non ritrovarti più in quello che hai scritto? Potrebbe essere il caso di “Acqua”?
È un po’ di tempo che non mi capita di rifiutare qualcosa che ho scritto tempo prima. In genere tendo a scartare subito, forse troppo frettolosamente, la maggior parte delle cose che faccio, per poi conservare con cura le poche parole e note che desidero far crescere. Dubito che Acqua possa stancarmi, anche perché se non l’ho odiata in questi anni di lenta scrittura e lentissimo rilascio, non la potrò odiare mai più.
Riesci a scrivere pezzi che non siano autobiografici?
In generale non percepisco miei pezzi come autobiografici. Li sento molto personali, questo sì, ma io stesso fatico a vedere un chiaro confine entro il quale si muovono. Una cosa che fatico a fare è scrivere con l’idea di raccontare qualcosa di definito e ben visibile. Sento la necessità di lasciare uno strato di nebbia, un’atmosfera ovattata attorno alle mie canzoni.
Ultima domanda: se fossi un drink quale saresti, e perché?
È una di quelle domanda che mi manda in crisi. Ho imparato a bere come si deve a Trastevere con un caro amico veneziano ma auto-censuro il continuo di questo racconto. Rispondo alla domanda con un “Sangria” poco motivato ma con molto cuore. Un mix di non so quali frutti – vanno bene tutti per me – e vino. Una bevanda che mi preserva dal ritrovarmi a cercare di fare invasione di palco in un concertone a Napoli alle quattro di notte o dall’essere recuperato con la testa immersa nella neve e le gambe direzione cielo. Storie di vita realmente avvenute che risalgono a un drink diverso da quello scritto qui sopra.
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