DROPOUT: ” Non voglio mostrare niente che non sia il mio lavoro”

Disponibile su tutte le piattaforme da venerdì 5 aprile il nuovo album del progetto Dropout dal titolo “Sulla fine delle cose”. Un disco intimo, forse al principio straniante, da scoprire ascolto dopo ascolto: 10 pezzi apparentemente facili per tempi notoriamente difficili. Un profondo e denso percorso introspettivo sul tema della fine delle cose.

Dropout intervista

Dropout intervista

C’è un significato dietro alla scelta del nome Dropout?

Dropout è l’errore nel rigore del digitale, è la deviazione dalla regola, è l’abbandono dei percorsi predeterminati. Letteralmente è la goccia che cade fuori dal vaso.
Nella vita si possono isolare due macro tipi di personalità imprenditoriale (e quindi, per similitudine, anche di personalità artistica): i Challenger e i Competitor. Questi ultimi sono la maggior parte delle persone, ovvero quelle che di fronte a una nuova idea mainstream la seguono pedissequamente, la fanno “propria” creando tutt’al più delle minime varianti. Quando va bene, o delle copie carbone (inevitabilmente sempre più sbiadite), quando va male. Quindi “sfidano” su questo piano, chi l’idea l’ha creata.
Dropout invece preferisce essere un Challenger, ovvero uno di quelli che, se una moda va per la maggiore, tenta per natura strade opposte per creare possibilmente qualcosa di nuovo e di alternativo.
Ecco, in poche righe, il concetto che sta dietro questo mio moniker.

Ci racconti qualcosa sul concept visivo che caratterizza il tuo progetto?

L’opera secondo me deve essere sempre in primo piano rispetto all’autore. In quest’epoca storica ritengo sia ancora più valido ciò che dico in quanto, mi pare ci siano, tendenzialmente, sempre di più immagine e sempre meno sostanza.
Ricordo quando ascoltavo, ad esempio, i dischi dei Pink Floyd: altri miei coetanei dicevano che era musica fatta da vecchi, ma non mi importava perché il loro messaggio mi colpiva profondamente. Non mi interessava in realtà chi fossero e in che anno avessero pubblicato il disco. Forse perché, per me, restavano sospesi in un eterno contemporaneo dato che sulle loro copertine raramente c’erano immagini del gruppo.

Piuttosto potevo ammirare delle magnifiche composizioni fotografiche, spesso surreali, che accompagnavano egregiamente la musica.Era molto intrigante non sapere praticamente che volti avessero (tutto questo succedeva prima di Internet, ovviamente).

Penso che il pubblico “social” di oggi sia come drogato dalla continua ricerca di gossip, che offusca ogni altra cosa, facendoci perdere il fulcro vero della questione: la musica, l’opera artistica. Quindi, personalmente, meno so dei loro fatti personali meglio sto e più liberamente posso fruire della loro arte, e farla mia. Di questo ho avuto conferma nel tempo, dopo l’avvento della Rete e dei social: leggere i banali pensieri quotidiani degli artisti mi ha spesso allontanato dall’apprezzare pienamente la loro musica. È un discorso questo che sembrerebbe controproducente fatto a mia volta come artista, però credo davvero che sia così.

Di qui il mio desiderio di non puntare su immagini del mio viso o sul gossip personale per promuovere il mio lavoro, levare il coefficiente “faccia” dalla mia musica. Quindi se la macchina promozionale mi chiede necessariamente delle foto, non mi oppongo, certo, ma come minimo mando i miei ritratti con un’esplosione di colori o una sfera policroma al posto del mio volto. Non voglio mostrare niente che non sia il mio lavoro. Niente età, niente razza, niente pensiero politico, niente fatti privati, ecc.
Stessa concetto per i videoclip. Trovo affascinante accostare immagini avulse dall’autore e dal contesto, per però, poi, rimontarle in modo tale che comincino ad avere un senso.

Cosa vuol dire portare avanti un progetto indipendente nel 2024?

Essere indipendente in Italia è diverso da fare musica Indie, che da noi, ormai, è curiosamente diventato un genere pop a sé stante. Portare un progetto indipendente a compimento vuol dire cercare di scavare una piccola nicchia per sé attraverso l’imponente muro unico del mercato mainstream. Che sia ben chiaro, non certo per distruggerlo e sostituirlo, ma piuttosto per avere di nuovo quella piccola comunità di ascoltatori che magari ti seguivano prima del 2008/2010. Utenza che però nel tempo si è persa a causa dell’offerta “che non puoi rifiutare” della Grande Distribuzione digitale e della conseguente e crescente disaffezione all’ascolto da parte delle persone, in generale.

Vi dirò un segreto.

Portare avanti un progetto indipendente oggi equivale ad agire su un livello simile a un rivoluzionario, che con piccole azioni di disturbo contro il Sistema, vive nella speranza di poter un giorno vedere di nuovo tornare un minimo di eterogeneità nel mercato. Nella speranza che la gente recuperi il gusto dell’ascolto di qualità, consapevole e critico, e che apprezzi la musica indipendente, dato che forse per la prima volta nella storia il pubblico non sembra accettare di buon grado più niente che non sia già cotto & mangiato dai canali mainstream.

Ormai solo gli eventi live potrebbe assicurare un minimo di tornaconto economico per la sopravvivenza degli indipendenti, se non fosse che anche lì le cose non stanno andando benissimo dal punto di vista legislativo e fiscale.

Quali sono tre dischi che sono stati fondamentali per la tua formazione musicale e perché?

Lucio Dalla, un’imprecisata raccolta dei primi successi anni ’60 su audiocassetta che da piccolissimo ho trovato come omaggio in un fustino Dixan. Semplicemente è stato il primo “album” che mi sono auto-gestito, trafficando quasi per gioco con il registratore mono Philips di casa. Il primo ascolto consapevole e reiterato di qualcosa. Da lì è nato il mio amore per l’ascolto musicale. Una vera e propria epifania: raccontava di storie strane di prigionieri e marinai piuttosto sfortunati ma dannatamente tenaci.

La raccolta “Album Rosso” ‘67-‘70 dei Beatles, subito dopo le audiocassette, quando ho imparato a posizionare la puntina sui vinili di mio padre… non credo serva commentare oltre.

“Under a Blood Red Sky”, famoso live degli U2, registrato su cassetta vergine da un mio compagno di prima superiore come regalo. All’inizio l’ho ascoltato solo una volta e poi per quasi un anno l’ho dimenticato, però ricordo bene il momento in cui, mentre studiavo, ho cominciato a fischiettare qualcosa che mi era rimasta impressa nei meandri del cervelletto. Allora nel dubbio sono tornato a riascoltare quella cassetta… ed era “Party Girl”. Da allora non ho più abbandonato quel gruppo, nemmeno oggi che, secondo alcuni, ha perso un po’ di smalto. Fun fact: più in là nel tempo ho anche avuto modo di conoscere di persona Bono.

Ultima domanda: se fossi un drink, quale saresti e perché?

Il vino della vigna antica e rara di cui sopra, più che altro per la ricerca del gusto così deciso e probabilmente unico, per la cura dedicata all’imbottigliamento in sughero e per l’etichetta intenzionalmente artigianale. Roba da collezionismo e da palati curiosi.

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