“Bonsai” è il nuovo singolo e video di Raesta, cantautore-medico che vive a Roma ma che sta incominciando a farsi ascoltare, anche grazie a qualche festival, anche al di fuori dei confini italiani. Lo abbiamo intervistato.
Raesta
Ciao Raesta, come nasce il tuo nuovo brano?
Ciao a Voi. Bonsai nasce da un giro di chitarra acustica. Al momento della sua produzione mi ero letteralmente divorato l’ultimo album dei King of Convenience. Amo quell’album ed in particolare il brano “Catholic Country”. Penso che la dimensione che stavo vivendo in quel periodo in cui vivevamo immersi nel verde a Viterbo, tra boschi, silenzio e laghi mi abbia ispirato il testo. Nasce così, nel fresco chiarore di un mattino.
Raccontaci qualcosa anche del video che accompagna la canzone.
Il video nasce da un’idea di Giovanni Grandoni. Io pensavo a qualcosa da realizzare in un teatro ma lui mi ha chiamato e mi ha suggerito l’idea. In parte il videoclip si è avvicinato a quello di “Sleep on the Floor” dei The Lumineers e questo mi ha fatto tanto piacere. E’ stato realizzato in Grecia, a Zante, gli ultimi giorni di una vacanza fatta a giugno. La parte iniziale e finale invece nella calda e vuota Roma, al pigneto. Ci siamo davvero divertiti nel realizzare quelle scene. E ancora una volta credo che il Videoclip abbia in qualche modo completato la canzone stessa. Aggiunge del romanticismo e dell’ironia che non fanno mai male!
Qual è la tua parte preferita del processo di creazione musicale?
Sicuramente il momento in cui il giorno dopo di aver scritto una melodia o un testo, la riascolti e ti piace. E’ il momento in cui sai che potrai farla crescere, sviluppare quella pianta che potrà diventare un albero forte e capace di resistere alle mille intemperie del processo creativo. Quella sensazione, quella presa di coscienza è la parte più entusiasmante.
Come è stato influenzato il tuo lavoro dai viaggi che hai fatto, come l’Erasmus in Spagna?
Nel mio erasmus ho capito una cosa fondamentale: la musica era la mia famiglia, la mia forza, ciò che ovunque e con chiunque mi trovassi mi dava un linguaggio trasversale per comunicare. Ho passato tante sere a suonare la chitarra con le comitive più diverse ed ho capito che un certo tipo di musica, era in grado di fungere da lasciapassare internazionale, perchè identifica la tua sensibilità senza bisogno di altro. Inolte nei momenti in cui mi sentivo solo e lontano da tutto mi addormentavo con il live At basement dei Radiohead, o l’album Declaration Of Dependence dei KOC, oppure Depeche Mode, Paul Kalkbrenner. Così come ho scoperto la bellezza della musica latina, Andalusa, così come lo Ska ed anche il Reggaetton. Erano letteralmente entrati nella mia fisiologia. Difficile spiegare la sensazione. La musica è diventata sostanza vitale, ancora di più di quanto già lo fosse.
Puoi parlarci del tuo percorso musicale, dalla batteria alle band dreampop e folk, fino alla musica elettronica?
Ho iniziato a sei anni col pianoforte. Poi ho scoperto la batteria ma l’ho suonata solo a quattordici anni, quando ho letteralmente pregato mio padre di chiederla in prestito ad un amico di mio fratello: una batteria bianca con bacchette cinesi come prime bacchette. Lì ho dimostrato a lui e a me stesso che facevo sul serio. Da lì è stato un continuo cambi di gruppi.
Tutti gli amici dopo un po’ mollavano. Io no, e ho percepito che avevo inoltre una tendenza ad arrangiare e a cantare, avendo paura di concentrarmi troppo nello studio di uno strumento in maniera accademica. Durante gli studi di medicina, in un anno di crisi (per problematiche legate alla mia salute) sono stato costretto a concentrare la mia mente su una musica chill e poi tecno. In seguito ho iniziato anche a produrne: mi ha aiutato tantissimo.
La tecno è una musica minimale che basa tutto sui climax, ti insegna a dosare suoni ed emozoni. Nel frattempo coi TwoLeft Shoes (brit pop), prima, poi La luna sotto l’albero del Carrubo (Folk), successivamente i Barbados (Dream Pop), ho proseguito come batterista. Arrivato a Roma ho deciso di continuare invece il percorso come autore e cantante (il mio primo gruppo alt rock si chiamava Ilaria in Una Stanza).
Quali sono le tue maggiori influenze musicali?
Questa è una domanda ovviamente molto difficile perchè conto molte influenze, da vari generi. Diciamo che in questi ultimi tempi ci sono alcune costanti.
Sicuramente l’ultima scuola cantautorale (Riccardo Senigallia, Paolo Benvegnù, Brunori Sas, Colapesce, Cosmo, Fulminacci), il french pop (Clio, Ben Masué, Pomme ecc), e poi King Krule e La Comitiva, The Smile, Bon Iver. Sono pigro negli ascolti, fortunatamente però sono circondato da tanti stimoli: tanti amici, tante persone a me care mi fanno ascoltare cose e qualche volta ci prendono talmente tanto che mi analizzo e mi spolpo la discografia di chi mi colpisce.
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