“Echoes in the dark” è la nuova rubrica per Brainstorming Magazine, completamente a tema darkwave, incentrata su dieci dischi ed artisti che esprimono l’essenza di questo genere musicale. Ogni settimana analizzeremo atmosfere e significati nascosti dietro le varie sonorità.
Iniziamo la seconda metà della rubrica, dedicando la sesta puntata ad un’artista che non rientra prettamente nel genere darkwave, ma che, come molte figure della scena alternativa contemporanea, ne incarna lo spirito più profondo: Ethel Cain.
Ethel Cain: la biografia
Una delle prime cose da sottolineare è il dualismo tra Hayden Anhedönia e Ethel Cain. Ethel è un alter ego, come lo descrive lei stessa. E’ un espressione narrativa ed emotiva di ciò che lei sarebbe potuta diventare se non avesse scelto la guarigione. Ethel Cain è la maschera che le ha permesso di raccontare storie estreme, traumatiche e liricamente dense senza risultarne sopraffatta. Insomma, per poter affrontare trauma e narrazione, questi vanno in qualche modo scissi.
Hayden Silas Anhedönia nasce a Tallhassee, nel nord della Florida nel 1998, e vive la sua giovinezza negli ambienti duri e spesso rudi del luogo: ne assorbe il realismo religioso, viene “inglobata” dalla fede e riceve un’educazione ed un’istruzione formale (rigorosamente a domicilio) tipica delle famiglie del Sud.

Il padre di Anhedönia era un diacono battista: è così che lei inizia a cantare sin da piccola nel coro della chiesa, assieme alla madre, e ad avvicinarsi alla musica cristiana. Una famiglia, diciamo non di quelle ideali, che le cuce addosso un vestito che le va fin troppo stretto. Hayden si sente protetta in maniera ossessiva, inizia a sviluppare un’idea per ciò che sia più macabro e svii dall’idea di perfezione. L’aggrapparsi socialmente alla fede, come unica via per ripudiare il Male, diventa uno strumento di difesa. Ethel però inizia a rifiutare questa cultura conservatrice.
“Durante l’adolescenza avevo delle cotte sia per le ragazzine che i ragazzini. Non sapevo neanche cosa significasse. […] Ricordo di avere richiuso delle parti di me stessa, pensando solamente a svegliarmi, mangiare, tornare a dormire”
La comunità la isola, Hayden abbandona il coro della Chiesa e passa le giornate chiusa in camera: inizia così a cercare una via di fuga, e lo fa tramite la musica. Scopre GarageBand ed inizia a dar un senso, anche in chiave estetica, al suo passato. Pubblica il suo singolo di debutto, Bruises, e viene contattata nel 2019 da Nicole Dollanganger per l’apertura di un suo concerto.
A scoprirla è però il rapper Lil Aaron, con cui collabora per il suo primo EP, Inbred, che uscirà nel 2021. Il suo primo EP include anche il singolo Crush (tra i suoi pezzi più pop), che la sovraespone e le permette di raggiungere un pubblico mondiale.
L’estetica
Hayden è esplicitamente una donna transgender che rifiuta l’idea di rendere l’identità di genere un totem da esibire, piuttosto preferisce mostrarla nella quotidianità. Questo approccio risulta radicale proprio perché disinnesca le aspettative del pubblico e dell’industria: non ha intenzione di spiegare cosa significhi essere trans, piuttosto chiede di accettarlo come dato. Non si parla di ridurre il tutto ad una semplice simbologia.
Anzi, l’estetica di Ethel Cain è un’estensione della sua musica: nei suoi videoclip, ad esempio, si rincorrono ambienti rurali abbandonati, case decadenti. Sono spesso presenti dei simboli religiosi che vengono però reinterpretati. La figura femminile è spesso al centro della narrazione, ma non in quanto martire: se lo è, lo fa in maniera consapevole. La donna è essa stessa carnefice, ma è comunque autrice del proprio destino.
Dal punto di vista musicale, le produzioni di Ethel Cain ricalcano il passato oscuro vissuto in prima persona dall’artista: synth avvolti da reverberi (a volte fin troppo eccessivi), distorsioni vocali, chitarre urlanti.. I brani soffocanti e spesso lunghi enfatizzano al massimo l’ossessione per il macabro e per il religioso. A tal proposito provate a guardare la cover album di Preacher’s Daughter..
La discografia

L’album d’esordio, Preacher’s Daughter , si identifica come una tragedia americana: un’odissea tragica che parte dal gospel e finisce in una sorta di horror lirico. L’album, molto autobiografico, racconta la storia di una ragazza travolta dai dogmi religiosi, dall’autorità paterna e dai suoi sogni infranti nel Midwest. Noi vogliamo definirlo concept album. Ma forse bastano le parole di Anhedönia, che lo definisce una “cautionary tale” su cosa accade se non ci si libera dalle catene dell’educazione, della religione e del mito della figlia perfetta. Questo approccio ricalca in qualche modo quello già utilizzato da altre artiste, come la “pop-vintage” Lana Del Rey. Sono loro che hanno saputo utilizzare la musica per sovvertire l’iconografia americana classica (e non a caso siamo su territori musicali confinanti, che sfociano in un certo slowcore…).
L’album dovrebbe essere il primo di una trilogia che segue tre donne imparentate tra loro. Esse seguono un percorso tormentato di sofferenza, caduta, ma anche emancipazione.
Molti brani dell’album affrontano in modo diretto l’abuso, il dolore, il suicidio, la perdita della fede. Come ha riferito Anhedönia in una interessante intervista su Billboard (qui il link), scrivere canzoni attraverso Ethel significa trasferire il trauma da sé stessa al personaggio.
“Quando succede a lei, non sta più succedendo a me. Questo processo è letteralmente un atto di sopravvivenza. Ti offre una riflessione potente sul potere trasformativo della musica”
La musica è mezzo di denuncia, ma anche un rituale intimo di liberazione. La traccia Ptolemaea (il cui titolo richiama una delle quattro sezioni in cui è suddiviso il nono cerchio infernale dantesco) è un esempio estremo: un brano disturbante, quasi horror, che mostra quanto l’abuso possa deformare la realtà e la percezione di sé.
Il nuovo album: Perverts
Il nuovo album Perverts, uscito il 7 gennaio 2025, è stato completamente spiazzante per la critica. Definito come “devastante, denso, oscuro”, è ispirato al concetto dei 12 Pilastri del Simulacro. Ethel si chiede in qual modo la musica possa avvicinarci al Divino, e lo fa tramite temi spirituali che si intrecciano con quelli più erotici.
Il titolo stesso, “Perverts”, non lascia dubbi all’immaginario collettivo: si tratta di un disco erotico, esplicitamente ispirato alla pornografia e all’autoerotismo, come si intuisce dal brano Onanist (riferimento al personaggio biblico). Ciò che si vuole sfidare è l’idea puritana secondo la quale spiritualità e sessualità sono inconciliabili. Anzi, l’artista stessa suggerisce che il desiderio sessuale può portare ad un’ascesa verso il Divino – ovviamente in maniera ponderata, in quanto è l’eccesso che porta alla rovina interiore.
In questo disco Ethel Cain mette in pausa la trilogia. Non parla più del suo personaggio, ma utilizza la nuova uscita come pretesto per manifestare la sua guerra contro compromessi ed obblighi legati alla sua carriera.
Nessuno, infatti, si sarebbe aspettato un album del genere: le tracce sono quasi esclusivamente strumentali, lunghe dai 6 ai 15 minuti, dalle sonorità ambient e industrial. La stessa artista ha dichiarato che Perverts non è un album (ma non ha nemmeno fornito dichiarazioni su come debba essere catalogato…).
A sorprendere è appunto il suono, gelido, agghiacciante. Droni, vibrazioni, ronzii continui accompagnano l’ascoltatore, che si sente – proprio a causa di questi – osservato, torturato, soffocato. Non vi sono testi lunghi e complessi, ma sono ripetuti così tanto da diventare ipnotici ed opprimenti. Ci sono orchestrazioni minimali in Punish, brani più dream pop (Vacillator), ma anche qualcosa che richiama il post-rock, come in Etienne.
L’album strizza l’occhio (in alcune tracce più di altre) ai Cigarettes After Sex: entrambi accomunati da un gusto per il gotico/retrò rivisitato in chiave slowcore. Tuttavia, ad un ascolto più attento si evince come Ethel Cain non abbia granché a che fare con I CAS. In Perverts si fatica ad uscire indenne dall’ascolto di tutti quanti i brani (e si fatica pure a non annoiarsi, dato l’alto rischio di cadere in banalità a causa dell’infinita ripetizione in sottofondo dei suoni su citati). Detto questo, l’album contiene comunque un certo fascino magnetico, tanto da risultare accattivante nella sua stravaganza.
Insomma, vale la pena ascoltarlo e.. perchè no, fino ad ora possiamo considerarlo tra le migliori uscite dell’anno. Vi lasciamo qui l’anteprima Spotify:
Per concludere…
La poetica di Ethel Cain, cupa e potente, diventa in pochi anni simbolica nel mondo darkwave/gothic, riuscendo a fare da ponte tra southern gothic e dream pop, con tinte religiose e immagini di decadenza in stile american.
Anhedönia ha costruito da sola il suo universo sonoro, imparando a produrre con un suo vecchio laptop e una copia pirata di GarageBand. Ancora oggi, anche se al fianco di collaboratori fidati, tiene il controllo sulla produzione di ogni brano: questo dimostra quanto per lei il suono stesso sia parte integrante della narrazione. L’autoproduzione diventa per lei una forma di autodeterminazione, oltre ad essere una tendenza sempre più presente nella scena alternative (soprattutto tra le artiste marginalizzate).
Hayden Anhedönia ha fatto dell’ambiguità, della decostruzione e dell’orrore personale un’estetica, senza perdere in autenticità.
Così, Ethel Cain diviene un simbolo di ribellione e al contempo di libertà narrativa in un’epoca in cui il controllo sulle proprie storie è una forma di potere.

Leggi anche –> Echoes in the dark #5: i Suffering for Kisses, tra elettronica e gotico
